Ieri ho ascoltato, in un evento dedicato ai ragazzi delle scuole superiori, la testimonianza dell’orrore vissuto da Liliana Segre nel campo di Auschwitz. Fino a ieri avevo letto libri, visto documentari in TV, film al cinema e anche visitato la casa di Anna Frank ad Amsterdam ma mai, mai, fino a ieri, avevo sentito parlare dal vivo una persona che quell’esperienza l’aveva vissuta sulla pelle. Nelle sue parole, il racconto dei fatti si è alternato a domande senza risposta sul comportamento umano e a considerazioni non scontate che mi hanno davvero scombussolata. Questa donna bellissima dall’aspetto fragile come una velina, ha raccontato ciò che ha vissuto con una forza inaspettata, potente; l’espulsione da scuola perché ebrea, poi la deportazione, il viaggio con il padre in un vagone con un solo secchio dove poter fare i bisogni, primo passo di sottrazione della dignità, poi la divisione tra uomini e donne all’arrivo che fu l’ultima volta in cui lo vide, la fortuna di essere scelta per lavorare e la gioia delle visite in cui risultava idonea perché significava poter continuare a vivere, il senso di colpa per non aver avuto il coraggio di dare coraggio ad una giovane donna che quella visita non l’aveva superata e poi la liberazione e per la prima volta, dopo un anno e mezzo di insulti, prevaricazioni e violenze parole di compassione emozionanti come carezze. Ci ha detto che da allora sono passati più di 60 anni e ancora si chiede il perché sia successo senza potersi dare una risposta, e che non si è mai tolta il tatuaggio con il numero di riconoscimento per restare, finché non morirà, testimone vivente di quella tragedia. Che togliere il nome è il primo passo per annullare qualcuno. Che poi chissà se è nato da questo l’espressione dispregiativa di chi considera gli altri non delle persone ma dei numeri. Che è sempre possibile fare una scelta, che in pochi ne fanno mentre in molti sono pronti a salire sul carro dei vincitori. Che non solo chi commette atti come quelli è colpevole ma anche chi non fa nulla per impedirglielo. Che quando si è ridotti ai minimi termini dell’umanità, la voglia di sopravvivere ci può indurre a fare o a pensare qualcosa di cui continueremo a vergognarci o a sentirci in colpa per la vita. Perché, e questo il messaggio più potente che mi è arrivato dritto nello stomaco, nessuno vuole morire. Anche nei momenti di peggiore prostrazione, solo pochi lo vogliono veramente. Tutti vogliamo vivere, continuare a vivere. Perché c’è sempre un motivo meraviglioso per farlo. Anche solo vedere, ascoltare e sentire il profumo della natura che a primavera si risveglia.
È da ieri che penso a quella domanda senza risposta sul perché alcuni siano capaci di tanta violenza e brutalità e che altri possano consentirglielo. Che sia possibile che alcuni trattino in modo non rispettoso altri uomini, fino agli estremi di torturarli e ucciderli, ritenendosi migliori per qualche casuale caratteristica di contorno, non essenziale, come il colore della pelle, il genere, la salute, la religione, ma anche l’età, la posizione sociale, o la parte di mondo in cui si è nati.
Ritenendosi migliori e dimostrando, con i fatti, in modo oggettivo, di non esserlo.
Buongiorno per oggi e per tutti quelli che verranno. Perché ha ragione la senatrice Segre, la vita può sorprenderci con la sua bellezza anche nei momenti più bui.