Ieri ero a Mirandola un nome che sa di favola e forse non a caso.
E ieri ho avuto il privilegio di conoscere delle persone straordinarie che hanno saputo trasformare un evento catastrofico in una opportunità. Che hanno saputo pianificare la ripresa con fatica e determinazione ed oggi guardano, fieri, a quello che non hanno semplicemente ricostruito, ma costruito meglio. E, aggiungo perché degno di nota, con il piglio di chi non ha finito: che sa che c’è sempre qualcosa che si può fare di più e meglio. Un’Italia del fare in silenzio di cui non si parla abbastanza e che invece dovrebbe davvero diventare l’icona del ‘ce la possiamo fare’. Un modello da sposare per ripartire.
Tornando a casa, ieri, ho pensato che questa storia è anche una bellissima metafora della vita. Ognuno di noi può subire terremoti. Vedere la sua vita andare in pezzi per mille ragioni. E di fronte alla macerie si può restare immobili a lamentarsi per il destino infausto, decidere di raccattare i pezzi e rimetterli insieme esattamente come erano, o cogliere l’occasione per tentare qualcosa di completamente nuovo. La terza è la strada più difficile perché apparentemente si resta per un po’ sospesi nel tempo: senza passato e senza futuro. Ed è quella che in pochi decidono di percorrere. Ma, a guardare bene, è l’unica che può consentirci di vivere a pieno il presente senza dimenticare da dove veniamo e guardando con fiducia a dove stiamo andando.
A Mirandola la via dove risiede il nuovo polo didattico è intitolata al 29 maggio, il giorno del terremoto. Al dolore di ciò che hanno perso hanno dedicato la rinascita.
Una grande lezione davvero. E pensare che ero andata lì, solo con l’intento di conoscere qualcosa in più su un nuovo laboratorio di robotica applicata al settore biomedicale.
È bello sentire queste cose, riempiono di ottimismo…
Resta tuttavia molta amarezza nel vedere politiche diverse nello stesso Paese.
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È partito il commento mentre scrivevo.
Pensavo alle differenze tra i vari terremoti di questo Paese, tutti uguali, tutti tremendi, ma tutti diversi nella gestione della ricostruzione.
Speriamo che in Emilia le cose vadano meglio che altrove, ma da ciò che hai scritto possiamo ben sperare.
Ciao!
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In Emilia hanno messo al primo posto le aziende, poi le scuole poi le case. Dormivano in macchina ma non hanno mai smesso di lavorare e andare a scuola. Lungimiranza nelle priorità. Non hanno più un campanile e gli manca ma hanno ritenuto che le urgenze erano altre.
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Dove non ci sono fabbriche e il lavoro è appeso ad un filo molto sottile è difficile immaginare una ricostruzione rapida.
I capannoni sono prefabbricati, le strade di una città no.
Fortunatamente per gli emiliani non c’era nessuno ad immaginare ed imporre una new town.
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Non era mia intenzione sollecitare paragoni. La loro storia è positiva in assoluto. Hanno fatto scelte giuste in relazione alla loro situazione. Potevano fare altre scelte e sbagliare. Scelte giuste anche rispetto agli amministratori. Scegliamo noi chi ci governa. O almeno la maggior parte di noi. O no?
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Secondo me non scegliamo molto.
Siamo solo fortunati o sfortunati, a seconda di dove capita di venire al mondo.
Poi, se parliamo di Paese, non abbiamo scelto proprio nulla.
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Ovviamente il mio era un commento privo di polemica, sottolineavo soltanto alcune differenze…
Merito a chi è riuscito a fare meglio.
Buon fine settimana!
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Maru, destini simili i nostri!! Andai là a fine maggio 2012 a fare un reportage fotografico sul terremoto e i farmacisti, e scrissi un articolo che parlava anche della metafora del terremoto dell’anima… Un grande abbraccio, mi ha fatto piacere leggere le tue parole.
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